“A forza di eliminare le differenze, si eliminano i confini anche dei nuclei familiari, dei sessi, oltre che quelli delle Nazioni e degli Stati, così che alla fine gli individui rimangono soltanto ‘individui’, a livello planetario, il che significa giungere alla morte, in quanto la vita secondo la natura immaginata dai filosofi non esiste per nessun essere vivente.”
(Ida Magli, La dittatura europea)
In natura i confini esistono per preservare l’ordine e la struttura di un sistema organico. Non sono un concetto astratto, una riflessione filosofica, una teoria: sono una necessità per la vita. I sistemi, se non rispettano un ordine interno, vanno incontro al disordine che opera verso il totale disfacimento di ogni forma e struttura.
Un sistema è ogni unità funzionale, costituita da più parti in relazione tra loro, che formano un complesso unitario in cui ogni parte opera per una finalità comune, che può essere anche la semplice sopravvivenza o l’integrazione in un sistema piú grande e complesso. Esso ha un confine che lo divide da un ambiente esterno, il quale potrebbe minacciare la sua integrità introducendo elementi di disturbo o semplicemente sottraendo energia. L’esterno potrebbe anche fornire energia, ma questo processo deve essere sempre controllato e regolato dagli elementi stessi del sistema. La quantità di energia deve sempre essere proporzionata alle esigenze interne. Se così non fosse, a meno che non esista un modo per immagazzinarla, essa risulterebbe svantaggiosa e dannosa per il mantenimento dell’equilibrio.
Figura 1 – Schematizzazione di un sistema termodinamico. Fonte: Wikipedia.
Le specie, le comunità, i paesaggi hanno origine grazie alle barriere naturali e all’isolamento geografico. Tutta la diversità biologica delle specie vegetali e animali – naturalmente anche della nostra – si sono originate a partire da potenzialità genetiche, che si sono manifestate in modo diverso a seconda delle diverse necessità ambientali, quindi dei diversi paesaggi. Secondo l’approccio olistico dell’ecologia del paesaggio, un territorio può essere suddiviso in aree geografiche spazialmente eterogenee – definite tessere ambientali – e percepito come un ‘sistema complesso di ecosistemi’, in cui processi ciclici della natura e azioni umane si completano vicendevolmente.
In ecologia, i confini assumono un’importanza assoluta. I limiti delle tessere del mosaico ambientale sono elementi essenziali del paesaggio e devono essere difesi con ogni mezzo, per conservare la biodiversità all’interno di ogni ecosistema.
I confini sono l’unica difesa della nostra ricchezza biologica. Ma cosa accade quando i confini non vengono rispettati, quando le mura cadono e i territori perdono la loro definizione? Dissolti i confini si assiste all’opera deformante dell’entropia, al disordine che va a destabilizzare e rovesciare l’omeostasi.
Da un punto di vista biologico, ecologico e genetico, ciò che sta avvenendo in Europa – e in maniera più evidente in Italia – , l’introduzione forzata di masse umane provenienti da popolazioni straniere, prende il nome di ‘sommersione genetica’. La sommersione genetica – che è una vera e propria forma di contaminazione antropica, quindi ecologica –, origina una serie di modifiche irreversibili nel pool genico di una popolazione e nei suoi gruppi etnici, che si sono plasmati, nei millenni, da un profondo equilibrio tra ambiente e genoma. In altre parole, il disordine. Da questo disordine deriva un caos iniziale e infine la perdita della caratteristica fisionomia dei gruppi umani presenti in Europa, quindi un effetto omogeneizzante con una diffusione di caratteri genetici e fenotipici inizialmente presenti in maniera separata nei gruppi umani originari.
Inoltre, c’è un aspetto importante della globalizzazione da non sottovalutare: i microrganismi – protozoi, virus e batteri – si muovono insieme agli uomini e quindi, con lo spostamento delle popolazioni, essi si dirigono nelle stesse direzioni. Ci esponiamo perciò al rischio di contagio per numerose forme infettive, con le quali, nel tempo, la maggior parte di noi non è venuta a contatto, contro le quali, quindi, non ha efficaci difese immunitarie specifiche. Oltre alla malaria, alla tubercolosi, all’AIDS e alla meningite, in Africa sono diffuse quasi venti malattie tropicali neglette, come la tripanosomiasi umana, la lebbra, la dracunculiasi, l’elmintiasi o la malattia di Chagas. È di questi giorni la notizia della presenza di venti casi di tubercolosi tra personale civile, agenti di polizia penitenziaria e detenuti nel carcere di Agrigento. “Tutto sarebbe partito dalla presenza di un detenuto affetto dalla malattia dal mese di novembre. In questi mesi non è stato adottato nessun protocollo di sicurezza verso gli altri.” (Il Giornale, La tbc nel carcere di Agrigento: “Venti persone già contagiate”, 29 febbraio 2020)
La situazione non è affatto sotto controllo da un punto di vista sanitario e questa carenza nell’organizzazione e nella capacità previsionale delle nostre istituzioni è risultata evidente, quando sarebbe stato necessario porre un freno agli ingressi in Italia o mettere in quarantena tutti coloro che provenivano da aree a rischio per diffusione di epidemie virali, ma non è stato fatto. Si è preferito sempre spostare l’attenzione sul presunto razzismo o su malattie insignificanti nel bilancio sanitario nazionale solo per giustificare la presenza dell’obbligo vaccinale.
Tornando ai rischi che corriamo, come popolazione italiana, mi sento di affermare, senza alcuna esitazione, che siamo di fronte a un disastro imminente da un punto di vista epidemiologico. I paesi occidentali sono indeboliti da secoli di ‘comodità’, abuso di farmaci, alimentazione inappropriata e sedentarietà, cosicché e allergie, intolleranze e patologie croniche sono in continuo aumento. Come si fa a credere che, miracolosamente, l’afflusso di stranieri non scateni, da un punto di vista strettamente biologico – e potremmo dire microbiologico –, una guerra? Batteri, virus e altre forme parassitarie non rispettano le leggi della solidarietà, attaccano gli organismi più deboli e più penetrabili.
Il nostro organismo, a questo punto, dovrebbe reagire, perchè nella legge della natura ciò che è estraneo, che non fa parte dell’organismo, è un potenziale nemico. Come avremmo dovuto reagire, quindi? Inizialmente con la nostra immunità aspecifica o innata, la prima linea difensiva dell’organismo, il sistema di difesa più antico e comune a tutti gli organismi pluricellulari, compresi gli insetti e le piante. Le nostre cellule hanno, al loro interno, enzimi e strutture in grado di identificare ed eliminare gli agenti patogeni.
I confini sono le barriere anatomiche del nostro organismo nazionale, ma una volta che l’intruso è penetrato, si possono attivare barriere fisiologiche e barriere infiammatorie. A condizione che il patogeno sia riconosciuto come pericolo e che le condizioni del sistema immunitario siano buone e che esso non sia in uno stato di infiammazione cronica o subcronica. All’interno della popolazione non ci sono buone condizioni immunitarie e gli italiani sono spesso troppo occupati a scontrarsi tra loro schierandosi tra fascisti e antifascisti, razzisti e antirazzisti, Nord e Sud, provax e novax, elettori di destra o di sinistra… Un po’ di polemica interna è necessaria, “Pòlemos è padre di tutte le cose”, ma non se essa genera una costante e persistente condizione infiammatoria interna. Poi, si sa, più c’è conflitto interno e maggiore sarà la possibilità di controllo o condizionamento da parte di fattori esterni.
Dovremmo, invece, impiegare le nostre energie verso la nostra sopravvivenza. Dovremmo imparare dalle piante. Gli alberi attivano sia barriere meccaniche sia chimiche che consentono di isolare una porzione di legno e ostacolare l’avanzamento di un parassita negli organi interni, preservando i tessuti in formazione da quelli colonizzati dal patogeno. La capacità dell’albero di attivare queste barriere è sicuramente di tipo genetico, ma un fondamentale apporto è fornito dalla vitalità e dall’integrità della pianta. Questa è la compartimentazione, un processo a cui l’albero ricorre come strategia di difesa.
In ogni sistema organico occorre difendersi dai potenziali elementi di distruzione provenienti dall’esterno; se essi sono entrati, occorre circoscriverli e distruggerli, separandoli e delimitandone l’azione in aree periferiche. Non bisogna lasciare che l’infiammazione, da locale, divenga sistemica. Sopra ogni cosa, è fondamentale non lasciare che gli elementi deleteri scalfiscano l’integrità dei nuclei riproduttivi e rigenerativi del sistema: in altre parole, della sua essenza più profonda. Tutto può essere sacrificato per arginare l’infezione, ma non i processi rigenerativi, che devono riprodurre le stesse strutture che l’infezione ha distrutto.
Quando operiamo una netta separazione dell’ambiente interno da quello esterno, però, è lecito e necessario domandarsi se il pericolo, per il sistema, non venga inglobato già al suo interno. Se il morbo ha già aggredito degli elementi, e nulla è possibile fare per riportarli a una condizione di integrità, quegli elementi devono obbligatoriamente essere eliminati. Pena la trasmissione dell’infiammazione a tutto il sistema. Un esempio ci è dato dalla dissociazione tra Nord e Sud d’Italia – alla quale abbiamo ancora una volta assistito in questi giorni – , prodotta artatamente in anni di insensata politica secessionista ha infettato gli elementi culturalmente e intellettualmente più deboli della popolazione e continua a trasmettersi, minacciando l’integrità del sistema stesso e la sua omeostasi. Chi si lascia contagiare da questa suggestione sta mostrando i sintomi di un processo infiammatorio in atto.
Lo scontro si percepisce dappertutto, anche tra virologi che non trovano un accordo sulla gravità della nuova epidemia o sull’origine del ceppo (o dei ceppi virali) e tra le istituzioni che sono chiamate a gestire l’emergenza. Tutti i nostri dèmoni, una certa litigiosità tipica degli italiani, si stanno manifestando, nel caos dovuto alla paura generale. Il frastuono, la confusione, il disordine infernale derivante dall’aumento dell’entropìa – proprio per il disfacimento dei confini territoriali e organici – , prevalgono sulla nostra capacità di organizzarci e creare un fronte unito ed efficace, di essere organici.
C’è chi si chiede se siamo di fronte a una semplice influenza o a un virus letale, ma forse ci sarebbe da domandarsi, più che altro, se siamo di fronte a una pandemia, oppure, più sommessamente – come meglio si adatta, quindi, alla condizione riservata all’Italia dal secondo dopoguerra – , a un semplice, e più sterile, pandemonio.
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